PLASTIC TAX: SVILUPPO ED INNOVAZIONE NON SI INCENTIVANO CON NUOVE TASSE

In un momento di estrema incertezza e confusione tra varie posizioni, a volte discordanti, vogliamo contribuire a fare chiarezza sulla questione materie plastiche e relativo impatto ambientale. La Plastic Tax, o tassa sulla plastica per dirla in italiano, introduce un’imposta sui cosiddetti “Macsi”, ovvero i manufatti in plastica con singolo impiego, quali gli imballaggi. Nella bozza di legge di bilancio è riportato: “E’ istituita una imposta sul consumo dei manufatti con singolo impiego, d’ora in avanti indicati come MACSI, che hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o di prodotti alimentari; i MACSI, anche sotto forma di fogli, pellicole o strisce, sono realizzati con l’impiego, anche parziale, di materie plastiche, costituite da polimeri organici di origine sintetica”. La tassa graverà quindi su “i dispositivi, realizzati con l’impiego, anche parziale, delle materie plastiche di cui al comma 1, che consentono la chiusura, la commercializzazione o la presentazione dei medesimi MACSI o dei manufatti costituiti interamente da materiali diversi dalle stesse materie plastiche. Sono altresì considerati MACSI i prodotti semilavorati, realizzati con l’impiego, anche parziale, delle predette materie plastiche, impiegati nella produzione di MACSI”, come cita la bozza di legge. L’imposta, che dovrebbe entrare in vigore dal 1° gennaio 2020, “sorge al momento della produzione, dell’importazione definitiva nel territorio nazionale ovvero dell’introduzione nel medesimo territorio da altri Paesi dell’Unione Europea e diviene esigibile all’atto dell’immissione in consumo dei MACSI, ai sensi del comma 6, nel territorio nazionale”, e interesserà tutti i produttori o importatori di imballaggi e tutte le aziende chimiche che sono alla base della produzione delle suddette materie. La nuova tassa ha una consistenza di 1 Euro per ogni chilo di materia plastica contenuta negli imballaggi. “L’imposta di cui al comma 1 è fissata nella misura di 1,00 Euro per chilogrammo di materia plastica di cui al comma 1 contenuta nei MACSI”, spiega la bozza. L’accertamento dell’imposta dovuta è effettuato sulla base di dichiarazioni trimestrali e per chi non paga ci sono multe che vanno da due a dieci volte l’imposta evasa. La nuova tassa sugli imballaggi di plastica dovrebbe portare nelle casse dello Stato fino ad 800 milioni di Euro dal 2020 e a regime la tassa dovrebbe assicurare un gettito fino a 1,4 miliardi di Euro.
Ciò premesso, esprimiamo le nostre considerazioni dopo aver ricordato alcune posizioni ufficiali sul tema.

LE REAZIONI DELLE ASSOCIAZIONI DI CATEGORIA
Confindustria ha espresso così la propria decisa contrarietà: “La misura non ha finalità ambientali, penalizza i prodotti e non i comportamenti e rappresenta unicamente un’imposizione diretta a recuperare risorse, ponendo ingenti costi a carico di consumatori, lavoratori e imprese. Le imprese già oggi pagano il contributo ambientale Conai per la raccolta e il riciclo degli imballaggi in plastica per 450 milioni di Euro all’anno, 350 dei quali vengono versati ai Comuni per garantire la raccolta differenziata”. L’introduzione di una tassa sulla plastica equivarrebbe, secondo Confindustria, “a una sorta di doppia imposizione e, come tale, sarebbe ingiustificata sia sotto il profilo ambientale che economico e sociale”. Ad esprimere parere contrario sono anche PlasticsEurope Italia (l’Associazione di Federchimica che raggruppa i produttori di materie plastiche), Unionplast (l’Associazione delle azienda trasformatrici delle materie plastiche), Amaplast (l’ Associazione dei costruttori impianti ed attrezzature di trasformazione delle materie plastiche e gomma) e Federalimentare (l’ Associazione di categoria dell’ industria alimentare), che hanno pubblicato il seguente comunicato congiunto, che riportiamo integralmente: “La misura non ha finalità ambientali, penalizza i prodotti e non i comportamenti, e rappresenta unicamente un’imposizione diretta a recuperare risorse ponendo ingenti costi a carico di consumatori, lavoratori e imprese. Siamo fermamente convinti che uno dei principali driver su cui puntare per realizzare un vero sviluppo sostenibile sia il completamento della transizione verso il modello economico circolare e non i divieti o la tassazione di materiali. I rifiuti costituiscono una enorme riserva di risorse che, se opportunamente gestita e valorizzata, può garantire un approvvigionamento sostenibile e continuo negli anni di materiali ed energia. L’industria italiana ha investito da tempo nell’economia circolare guadagnandosi la leadership Europea, attraverso:
• minor utilizzo delle materie prime;
• maggiore efficienza nei processi produttivi;
• meno rifiuti e una positiva percezione da parte del mercato e dei consumatori.
La Plastic Tax andrebbe a punire un’industria che sta facendo grandi sforzi nella direzione della sostenibilità, drenando peraltro importanti risorse per investimenti per innovazioni. Dal punto di vista tecnologico, il settore ha già investito e continua ad investire e oggi è la seconda industria in Europa, con rilevanti implicazioni occupazionali. In particolare, il settore vede la presenza di tremila aziende, con oltre 50.000 lavoratori, contando sia i trasformatori che le aziende di seconda lavorazione. Il fatturato sviluppato nel 2018 è prossimo ai 12 miliardi di Euro, in crescita del +1,2% rispetto all’anno precedente. Sotto il profilo dei volumi, il 2018 ha registrato un andamento piatto, pari a 3,11 milioni di tonnellate, determinato dalla flessione dell’impiego di polimeri vergini bilanciata da un incremento dell’impiego di riciclati (aggregato pre e post-consumo), che hanno vissuto una crescita di oltre il +6% rispetto all’anno precedente. Al momento, peraltro, la plastica non è comunque sostituibile in numerosi mercati e prodotti, confermandosi la migliore soluzione per l‘ambiente. Più in dettaglio, la Plastic Tax colpirebbe un materiale, ritenendo che la riduzione della messa in consumo possa contribuire a risolvere le difficoltà connesse alla corretta gestione del fine vita, senza comprendere che tali difficoltà continueranno a permanere finché non si affronteranno le condizioni di contorno, legate a un quadro di riferimento normativo/autorizzativo e di dotazione impiantistica assolutamente insufficiente per un Paese che ha l’ambizione di restare leader in Europa nell’economia circolare. La misura rischia di compromettere anche il sistema dei consorzi per la gestione e il riciclo degli imballaggi, che da più di vent’anni ha consentito al nostro Paese di essere leader nell’economia circolare e di raggiungere tutti gli obiettivi Europei per il riciclo. Le imprese del settore già oggi pagano il contributo ambientale CONAI per la raccolta e il riciclo degli imballaggi in plastica per un ammontare di 450 milioni di Euro all’anno, dei quali 350 vengono versati ai Comuni per garantire la raccolta differenziata. Peraltro già sussiste una modulazione di contributo sulla qualità del materiale messo in commercio: maggiore è la riciclabilità e la qualità del materiale che finisce nella raccolta urbana, minore sarà il contributo richiesto alle imprese per garantire la corretta gestione del fine vita. La Plastic Tax rischia di mettere in crisi l’intero settore della produzione. Sul punto basta considerare il fatto che oggi 1 Kg di plastica (come materiale in input dei processi produttivi) ha un costo medio di 0,90 Euro, al quale va aggiunto il valore medio in € del CAC (contributo ambientale CONAI) al Kg pari 0,33, per un totale di 1,2 Euro al Kg. A questo ammontare andrebbe sommata la Plastic Tax del valore di 1 Euro al Kg che farebbe lievitare del doppio il costo (2,20 Euro al Kg), il tutto da maggiorare di IVA. In altri termini, la tassazione determinerebbe un aumento del 110 per cento del costo per l’intera filiera della plastica. Ma gli effetti negativi dell’imposta si determinerebbero, altresì, anche per il settore chimico, per i costruttori di macchine attrezzature e stampi e per i settori industriali utilizzatori di imballaggi, pensiamo a tutto il comparto alimentare e delle bevande, della cosmetica e dell’igiene per fare un esempio. La tassa determinerebbe infatti un aumento medio pari al 10% del prezzo di prodotti di larghissimo consumo contribuendo a indebolire ulteriormente la domanda interna con evidenti ripercussioni negative per tutti i settori indicati. In alcuni casi, come quello delle acque minerali, l’aumento può arrivare fino al 50-60% del prezzo al consumo sui primi prezzi, a causa del basso valore aggiunto del prodotto. L’impatto sulla spesa delle famiglie è stimabile in circa 110 Euro annui. A legislazione vigente, le imposte indirette (IVA e accise) già gravano in misura maggiore sulle famiglie a più basso reddito (18% del reddito disponibile, contro il 12% delle famiglie più ricche); l’introduzione della Plastic Tax andrebbe quindi a peggiorare ulteriormente tale incidenza.” A puntare il dito sulla Plastic Tax è pure Unionchimica Confapi, la cui richiesta è di “Non demonizzare il settore”. “Anziché puntare su tematiche di sostenibilità ambientale ed economia circolare aiutando la riconversione del nostro tessuto produttivo creando occupazione, con azioni come questa, si mette in ginocchio un comparto produttivo che perderà migliaia di posti di lavoro”. Anche Filctem CGIL, Femca CISL, Uiltec UIL dicono no alla nuova tassa, che vorrebbe imporre il governo giallorosso. Le segreterie sindacali “sono fermamente contrarie alla scelta del Governo di colpire l’intero settore industriale della Plastica”, si legge nel comunicato congiunto. “Si tratta di una misura che non incentiva gli investimenti per la riconversione industriale o la spinta al riciclo/riuso e all’ economia circolare, ma che ha la sola finalità di reperire risorse per fare cassa, mettendo in seria difficoltà imprese e lavoratori di questo settore manifatturiero molto importante per il nostro paese”, spiegano i sindacati, convinti che si tratti di “un’imposizione diretta che farà aumentare i costi a carico di Consumatori e Imprese. I lavoratori saranno i primi a subirne le conseguenze”. Anche Federconsumatori ha espresso forti perplessità sul tema: “Pur condividendo l’impegno del Governo verso una svolta all’insegna della sostenibilità della nostra economia, ci dispiace constatare, però, come abbia scelto di seguire la strada dettata dalle emergenze, senza fare scelte coraggiose e investire sul futuro, secondo la logica del: meglio una tassa oggi che un incentivo per il domani. Rientra in quest’ottica la Plastic Tax, imposta che graverà sui cittadini, che dovranno fare i conti con prodotti rincarati dai maggiori costi sugli imballaggi. L’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha calcolato che, se tale tassa come è facilmente ipotizzabile verrà scaricata in larga parte sui prezzi finali dei prodotti con imballaggi in plastica, ogni famiglia dovrà far fronte ad una maggiorazione della spesa di 138,77 Euro annui”. Potremmo continuare con altre autorevoli affermazioni, ma in ogni caso risulta abbastanza evidente come questa tassa abbia trovato d’ accordo, nella sua bocciatura, tutte le principali parti sociali. Le considerazioni sopra riportate sono tutte di per sé robuste e palesemente auto esplicative. Per questo proviamo a dare un ulteriore contributo di livello scientifico, oltre che socio economico, al dibattito sul tema.

I NUMERI DEL SETTORE

Cominciamo con qualche numero relativo al settore in questione. L’industria Europea delle materie plastiche (dati 2018) occupa 1.6 milioni di addetti, con circa 60.000 aziende, un turnover superiore ai 360 miliardi di Euro e una bilancia commerciale positiva di oltre 15 miliardi di Euro nello scorso anno. Nel 2018, 9.4 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica post-consumo sono stati raccolti in Europa per essere riciclati (dentro e fuori l’Unione Europea). Il comparto si colloca al 7° posto in Europa per contributo a valore aggiunto industriale. Allo stesso livello dell’industria farmaceutica e molto vicino all’industria chimica, con un effetto moltiplicatore di 2,4 sul PIL e di quasi 3 sul livello occupazionale. Nel 2018 la produzione mondiale di materie plastiche ha immesso sul mercato circa 359 milioni di tonnellate con un incremento del 2,9% rispetto al 2017, di cui il 17% in Europa (61 tons, -4,7% rispetto al 2018), il 51% in Asia (30% assoluto in Cina) e il 18% nei paesi del NAFTA. Gli USA sono stati il primo partner commerciale per l’Europa, sia per l’import che l’export di materiali e componenti plastici. La domanda della trasformazione (“converters”) nel 2018 è stata pari a circa 51 milioni di tonnellate, per l’80% concentrata in 6 paesi più il Benelux e l’Italia occupa il secondo posto, dopo la Germania, con circa il 14% dei volumi trasformati. Il 40% circa dei volumi trasformati viene impiegato nel packaging, il 20% circa nel settore costruzioni, il 10% circa nell’automotive, il 6% circa nel settore elettrico e dell’elettronica. Il 50% circa dei volumi trasformati in Europa riguardano le poliolefine (PP e vari gradi di PE). Oggi si parla comunemente di “plastica” come se si trattasse di un singolo materiale, ma come nel caso dei metalli, dove sappiamo che esistono diversi tipologie con proprietà diverse, anche la plastica può annoverare una vasta famiglia di materiali diversi tra loro. I materiali plastici possono essere prodotti da diverse fonti. Le materie prime possono essere di origine fossile (petrolio greggio, gas, ecc.) o rinnovabili (canna da zucchero, amido, oli vegetali, ecc.) o persino a base minerale (sale). E’ importante considerare che alcune materie plastiche sono anche compostabili. Ciò significa che, purché siano adeguatamente raccolti e trattati insieme ai rifiuti organici, degradandosi si trasformano in compost. Qualunque sia la loro origine, al termine della loro vita di servizio, i materiali plastici sono risorse importanti che possiamo utilizzare sotto forma di nuovi materiali o come fonte di energia alternativa una volta utilizzata negli impianti di recupero energetico.

I VANTAGGI CONSOLIDATI
È ampiamente riconosciuto che le plastiche possono giocare un ruolo cruciale nel determinare un futuro più sostenibile. Attraverso la loro combinazione unica di leggerezza, durata e altre proprietà intrinseche, i materiali plastici già contribuiscono a ridurre le emissioni di gas serra, rendendo più efficiente l’utilizzo delle nostre risorse in una vasta e variegata gamma di settori e applicazioni giornaliere. Come risultato della loro versatilità e capacità per l’innovazione, i materiali plastici rappresentano la migliore soluzione nell’ambito di tecnologie innovative sostenibili in settori quali mobilità e agricoltura sostenibile, efficienza energetica nelle costruzioni, conservazione degli alimenti o nel settore sanitario e medico. Pensiamo ad esempio al settore dell’auto, che sfrutta questi materiali in modo sempre più intensivo nel metal replacement, con vantaggi confermati da dati incontrovertibili: la sostituzione di parti in metallo con omologhe a base polimerica permette una riduzione media del peso della vettura di 200 Kg, ma soprattutto un risparmio fino a circa 12 milioni di tonnellate annue di carburante. Un discorso simile può essere affrontato in diversi settori, nell’edilizia in termini di saving energetico dovuto a isolanti sempre più performanti, o nel packaging alimentare, dove l’utilizzo di imballaggi plastici consente il prolungamento della vita degli alimenti, riducendone lo spreco. Se confrontiamo le emissioni di anidride carbonica generate dalla produzione di 1 Kg di carne – circa 13 Kg – con quelle dovute alla produzione della vaschetta di polipropilene che lo contiene – circa 0,04 kg – scopriamo che la realtà è ben diversa dal messaggio veicolato, che tende a colpevolizzare proprio l’imballaggio. Ottimizzare le confezioni, ridurne lo spessore e il peso, consente inoltre un contenimento degli ingombri, con importanti benefici anche sull’impatto causato dai trasporti. Occorrono meno di 2 grammi di plastica per confezionare due arance o due mele. La confezione prolunga la durata di conservazione, ovvero il tempo per il quale si conserverà in frigorifero, di 11 giorni. La durata di conservazione di una confezione di carne diventa di 26 giorni. Un po’ di plastica ci eviterà di sprecare un’enorme quantità di cibo. In media la quantità di CO2 immessa per produrre questo imballaggio di plastica è inferiore al 10% della quantità di CO2 già emessa per produrre gli alimenti. Inoltre, l’imballaggio di plastica previene le emissioni di CO2: oltre ad impedire lo spreco di cibo, la quantità di CO2 non emessa è 5 volte superiore a quella emessa per produrlo. Eppure la maggior parte di noi è ancora convinta che le alternative alla plastica siano sempre migliori. “L’importanza della produzione e della fase post-consumo del packaging sull’impatto ambientale è basso e rappresenta circa 1÷10% dell’impatto totale generato dalle catene alimentari”. Silvenius et al. (2014), Packaging Technology and Science. Un indicatore importante a tal riguardo è il Packaging Relative Environmental Impact (PREI) 

PREI=EI (pack)/EI (food)

che fornisce una stima dell’effettivo “peso ambientale” dell’imballaggio rispetto all’alimento e rappresenta un indicatore dell’influenza che lo spreco alimentare può avere sulle performance ambientali dell’intero sistema.
Elevati valori di PREI indicano che azioni mirate a ridurre l’impatto dei materiali di confezionamento possono offrire un contributo significativo al miglioramento della sostenibilità ambientale del sistema.
Bassi valori di PREI suggeriscono che le perdite alimentari incidono significativamente sulle performance ambientali. In questo caso, possono risultare positivi investimenti volti a ridurre il food waste, anche se comportassero un aumento dell’impatto relativo al packaging.
Alimenti confezionati in vetro o in lattine metalliche mostrano alti valori di PREI, indipendentemente dalla categoria cui appartengono. “Le soluzioni di imballaggio che riducono al minimo la generazione di rifiuti a livello domestico e/o di distribuzione e di vendita al dettaglio, portano al minor impatto ambientale dell’intera catena di imballaggio del prodotto, Silvenius et al. (2014), Packaging Technology and Science, 27, 277-292. Gli studi scientifici analizzano asetticamente i prodotti, prendendo in considerazione non solo la quantità di materiali necessarie per ottenerli, ma anche quanto suolo, acqua ed energia saranno consumati nel processo di realizzazione del prodotto medesimo. Tutto questo si traduce in una impronta e quindi in emissioni di CO2, con relativi effetti sulla salute umana, sullo strato di ozono e sulla qualità della terra e dell’acqua.


PLASTICA vs VETRO
E’ indubbio come la plastica sia un materiale resistente e leggero e possegga la metà della densità del vetro, più o meno la stessa densità della carta. Ma grazie alla sua resistenza, è possibile creare imballaggi molto più sottili rispetto ad altri materiali. Nella quasi totalità dei casi la confezione di plastica assorbirà molto meno risorse e sarà molto più efficiente in termini di trasporto.

Facciamo qualche esempio, iniziando dalle bottiglie.Usiamo circa 24 volte più vetro della plastica, per confezionare la stessa quantità di liquidi. E poiché il vetro è più pesante spendiamo quasi il doppio per trasportarlo.

Le bottiglie di vetro sono certamente riutilizzabili, ma non all’infinito. Una bottiglia di vetro può essere riutilizzata 8 volte prima che possa essere recuperata in una nuova bottiglia. Ma anche in questo caso sarà necessario utilizzare molta acqua e prodotti chimici aggressivi per la fase di pulizia intermedia. Possiamo riutilizzare le bottiglie 8 volte, per cui il rapporto si riduce a 3. Ma anche le bottiglie di plastica vengono riciclate, almeno in Europa. Considerando l’ipotesi peggiore in cui solo il 50% delle bottiglie venga riciclato, è possibile dimezzare la quantità di plastica utilizzata. Anche se prendiamo in considerazione il riutilizzo del vetro, utilizziamo comunque 6 volte più vetro che plastica, per realizzare il medesimo numero di bottiglie. Il tutto utilizzando energia e acqua ed emettendo CO2. Inoltre, il vetro fonde a 1.500 °C, mentre la plastica utilizzata per le bottiglie fonde a 300° C, quindi la quantità di energia necessaria per produrre bottiglie di vetro è incredibilmente più elevata. Ciò premesso, il vetro non è poi così sostenibile come si potrebbe pensare. Le bottiglie di plastica, supportate da un buon programma di riciclaggio e da consumatori diligenti che favoriscano il riciclo, sono, nel loro insieme, molto meno dannose per l’ambiente.

PLASTICA vs CARTA
Passando poi ad analizzare i sacchetti di plastica, sappiamo che interi paesi ne hanno vietato del tutto l’utilizzo. Se consideriamo una di quelle sottili buste di plastica interamente realizzate con materiali compostabili e confrontiamo questa soluzione con il migliore scenario possibile per la carta, notiamo che un sacchetto di carta realizzato interamente con carta riciclata pesa 50 grammi, che dovrà essere necessariamente riciclata dopo l’uso, con ulteriore consumo di energia, mentre il sacchetto di plastica pesa 20 grammi e non impatta sull’ ambiente nel suo smaltimento. La carta richiede molta più energia per essere prodotta e riciclata. Inoltre, consuma acqua, terra e alberi. Se consideriamo l’impronta del sottile sacchetto di plastica che smaltiamo, è talmente ridotta che sarebbe necessario riutilizzare il sacchetto di carta ben 4 volte per avere lo stesso impatto del sacchetto di plastica. Ma onestamente, quanti riescono a riutilizzare lo stesso sacchetto di carta 4 volte? Molto pochi sicuramente. Se al posto della carta si analizza il robusto shopper di cotone la situazione non cambia molto. La produzione del cotone richiede un utilizzo così intensivo di terreno e di acqua che sarebbe necessario riutilizzare lo shopper di cotone oltre 170 volte per giungere a un punto di pareggio ambientale. Utilizzando per la spesa ogni settimana sempre la stessa borsa, in media significherebbe oltre 3 anni di spesa consecutivi solo per impattare meno del sottile sacchetto di plastica compostabile. A conti fatti la migliore alternativa è la borsa di plastica riutilizzabile che si acquista alle casse. Quelle più robuste raggiungono il pareggio ambientale dopo 20 riutilizzi, ovvero in meno di 6 mesi consecutivi di spesa. Dopo il primo semestre tutto quello che segue è un guadagno per l’ambiente. Sostituire gli imballaggi in plastica usa e getta con la carta, come hanno scelto di fare McDonald’s, Starbucks e Nestlé, può sembrare, in teoria, una buona idea. In realtà, l’impiego di quantità sempre maggiori di carta per il packaging si scontra inevitabilmente con gli sforzi di riforestazione che si dovranno mettere in atto per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. D’altra parte anche le foreste gestite responsabilmente con certificazioni di sostenibilità (come la FSC) non sono in grado di rispondere a un aumento della domanda di carta. Sostituire tutti gli imballaggi in plastica monouso con la carta non è di fatto una scelta sostenibile. Di solito la carta è scelta come alternativa alla plastica perché è un materiale facilmente riciclabile. Nonostante ciò, per le aziende, soprattutto quelle del settore alimentare, reperire sul mercato carta riciclata di qualità non è facile, spesso a causa delle contaminazioni che si possono verificare durante il processo di riciclo. A volte, invece, sono proprio i nuovi packaging di carta a non essere riciclabili, come nel caso delle cannucce introdotte da McDonald’s nel Regno Unito e in Irlanda, che a causa del loro spessore e della loro composizione non possono essere riciclate.

Il ragionamento sull’impatto ambientale delle materie plastiche non può quindi essere condotto solo in base a una spinta emozionale che dipinge la chimica, e conseguentemente la plastica, come la madre di tutti i problemi. Vi è la reale necessità di comunicare reali dati di fatto, evidenziando l’insostituibilità della plastica. Si tratta di una sfida non facile, soprattutto se il focus del discorso parte sempre dal riciclo e dallo smaltimento e mai dall’inizio della filiera.

SOSTENIBILITÀ COMPLETA
La sostenibilità ambientale non può essere semplicemente sventolata come una bandiera, considerandola come un concetto svincolato dalla realtà. La sostenibilità deve essere anche economica: ogni processo va pensato in un’ottica più ampia, riflettendo anche sull’occupazione creata e sul conseguente benessere per i dipendenti e la popolazione. Nessuna azienda sarebbe credibile promuovendo ambientalismi di facciata o semplicemente non sostenibili, pena la sua stessa sopravvivenza. Si è davvero sostenibili se si lavora per generare profitti, investendone parte in ricerca e sviluppo per migliorare la qualità della vita e dell’ambiente, sfruttando al massimo le potenzialità di questi materiali in un concetto di economia circolare efficiente. Le direttive sui rifiuti, quelle ancor recenti sui prodotti monouso e sulla dispersione nell’ambiente delle microplastiche non sono un dibattito tra buoni e cattivi. Spesso ci si concentra solo sul riciclo e sul fine vita dei manufatti in plastica, senza minimamente tenere conto dei benefici che tali materiali apportano, durante il loro intero ciclo di vita, in termini di risparmio di risorse e miglioramento dell’impatto ambientale, a partire dalla riduzione delle emissioni di anidride carbonica.


NECESSITÀ DI UN APPROCCIO OGGETTIVO
Ciò che rischia di far deragliare il sistema è l’aspetto emotivo. Se si prende come esempio il marine litter, tema che oggi mette più che mai la plastica sul banco degli imputati, un conto è riconoscere, come è giusto cha sia, la complessità di tale problema, un altro è cercare di affrontarlo nel modo più completo possibile. Prima di colpevolizzare la plastica, è necessario intervenire per modificare i comportamenti del consumatore, impedendo che la plastica arrivi in mare.

Ciò che è realmente necessario è un cambio culturale che può essere sintetizzato in una frase: “la plastica è troppo preziosa per essere gettata”. Ragionando in questo modo, si riuscirebbe a separare i fatti e i dati oggettivi da quelli soggettivi in quanto legati a comportamenti scorretti, aumentando il livello di consapevolezza del consumatore. E in questa direzione la comunicazione è fondamentale, già fin dalle scuole primarie. Alcuni prodotti in plastica hanno una durata inferiore a un anno, altri hanno una durata superiore a 15 anni e alcuni hanno una durata di 50 anni o anche più. Pertanto, dalla produzione ai rifiuti, diversi prodotti in plastica hanno cicli di vita diversi ed è per questo che il volume dei rifiuti raccolti non può eguagliare, in un solo anno, il volume di produzione o consumo.

IL RECUPERO E LA CIRCOLARITA’
Nel 2016, 27.1 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica sono stati raccolti attraverso sistemi ufficiali, di cui il 31% è stato gestito con riciclo (quasi 2/3 nell’ UE28 + NO/CH), il 41% circa destinato al recupero energetico e poco meno del 28% conferito in discarica. Per la prima volta quindi, la % riciclata di plastica ha superato quella conferita in discarica. In 10 anni (2006-2016), il riciclo della totalità rifiuti di plastica è aumentato in quantità di quasi l’80% e il recupero di energia è aumentato del 61%, mentre il conferimento in discarica è diminuito del 43%. Negli stessi 10 anni, il riciclo della quota relativa agli imballaggi in plastica è aumentato di quasi il 75%, la parte destinata al recupero energetico del 71%, mentre quella conferita in discarica è diminuita del 53%. Nel 2016 sono stati raccolti 16.7 milioni di tonnellate di rifiuti di imballaggi in plastica attraverso schemi ufficiali per essere poi trattati. Di questi circa il 41% è stato gestito con riciclo (quasi 2/3 nell ‘UE28 + NO / CH), circa il 39% è stato destinato al recupero energetico e circa il 20% è stato conferito in discarica. Nello stesso anno 19 paesi Europei hanno registrato tassi di riciclo degli imballaggi in plastica superiori al 35% e 2 hanno raggiunto un tasso di riciclo pari o superiore al 50% (Germania e Repubblica Ceca). Ancora relativamente al 2016, il tasso di riciclo complessivo dell’UE per i rifiuti di imballaggi in plastica è risultato del 40.8%, ben al di sopra del 22.5% richiesto della direttiva UE sui rifiuti da imballaggio. In Germania, nel 2016, 5.1 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica post-consumo sono stati raccolti attraverso schemi ufficiali per essere poi trattati. Dal 2006 al 2016, i volumi del riciclo di questa nazione nel settore specifico sono aumentati del 76%, il recupero di energia è aumentato del 64% e il conferimento in discarica è diminuito del 77%. Relativamente alla porzione di rifiuti di imballaggi di plastica, nel 2016 sono stati raccolti 3 milioni di tonnellate di post-consumo attraverso schemi ufficiali per essere poi trattati. Dal 2006 al 2016, il volume dei rifiuti di imballaggi in plastica raccolti per il riciclo è aumentato del 68%, il recupero di energia è aumentato del 58% e il conferimento in discarica è diminuito del 95%.
In Italia, nel 2016, sono stati raccolti 3.4 milioni di tonnellate di rifiuti post-consumo di plastica attraverso schemi ufficiali, per essere poi trattati. Di questi il 29% circa è stato gestito con riciclo (quasi 2/3 nell ‘UE28 + NO / CH), il 34% circa destinato al recupero energetico e il 37% circa conferito in discarica.
Dal 2006 al 2016, i volumi totali del riciclo sono aumentati del 46%, la quota destinata al recupero di energia è aumentata del 53% e la porzione conferita in discarica diminuita del 49%. Per quanto riguarda, in particolare, gli imballaggi di plastica post-consumo, nel 2016 sono stati raccolti 2.2 milioni di tonnellate di rifiuti attraverso schemi ufficiali per essere poi trattati. Di questi il 41% circa è stato gestito con riciclo (quasi 2/3 nell ‘UE28 + NO / CH), il 45% circa destinato al recupero energetico e il 14% circa conferito in discarica. Dal 2006 al 2016, il volume di rifiuti di imballaggi in plastica raccolti per il riciclo è aumentato del 41%, il recupero di energia è aumentato del 52% e il conferimento in discarica è diminuito del 66%. Nell’auspicio delle associazioni di filiera è la necessità di tecnologie diversificate e complesse per il recupero della plastica, a causa della forte differenziazione dei materiali (a tal proposito si sono aperte 3 distinte piattaforme per incentivare l’innovazione in tal senso: ECVM – European Council of Vinyl Manufacturers, PCEP – Polyolefin Circular Economy Platform, SCS – Styrenics Circular Solutions). Le azioni ritenute necessarie sono una migliore gestione della logistica e organizzazione dei prodotti che possono generare spreco e quindi produzione non utile di imballaggi con la connessa tematica dello spreco alimentare ed un maggiore sviluppo dell’ecodesign, vista l’attuale significativa carenza di competenza in tale ambito, cercando di definire entro il 2020 alcune linee guida sul tema per le industrie del settore imballaggi. In termini di redditività degli impianti, attualmente solo i 2/3 degli impianti per il riciclo della plastica sono realmente redditivi. La strategia condivisa tra EU ed associazioni di settore prevede l’adozione di norme armonizzate per garantire che entro il 2030 tutti gli imballaggi di plastica immessi sul mercato dell’UE possano essere riutilizzati, riciclati e non siano dispersi.

COME MIGLIORARE IL PACKAGING E NUOVI TARGET
Le principali strategie di miglioramento puntano sul packaging lightweighting, la scelta di materiali e/o tecnologie alternative, la riprogettazione del packaging in prospettiva di fine-vita, il prolungamento della shelf life, la riduzione degli sprechi, l’ottimizzazione dei processi. L’Associazione Europea dei produttori di materie plastiche (PlasticsEurope) si è posta l’obiettivo di recuperare il 60% degli imballaggi in plastica entro il 2030 e il loro completo riutilizzo entro il 2040 nell’UE-27, in Norvegia e in Svizzera. Per raggiungere questo target si sta lavorando su molti fronti, compreso l’aspetto del riciclo chimico, che possa permettere la depolimerizzazione e il ritorno ai monomeri di partenza, ma anche alla riconversione delle plastiche miste. Si tratta di processi noti, mai considerati dal punto di vista industriale perché considerati troppo costosi, ma che potrebbero diventare interessanti se ottimizzati dal punto di vista tecnologico e soprattutto incentivati in termini normativi ed economici. Importante anche l’azione di sensibilizzazione delle istituzioni locali e nazionali perché si attivino per migliorare il sistema della gestione dei rifiuti, partendo dalla raccolta – soprattutto in alcune regioni del Sud – per arrivare al potenziamento delle infrastrutture, puntando a evitare, per quanto possibile, il semplice conferimento in discarica. Nel frattempo, 250 aziende – enti pubblici, associazioni e ONG – hanno sottoscritto, nell’ ottobre 2018, durante la «Our Ocean Conference» di Bali, il «New Plastics Economy Global Commitment», impegno per una gestione più circolare dei rifiuti in plastica a partire dalla prevenzione, lanciato dalla Ellen MacArthur Foundation. Il mondo dell’industria era rappresentato in gran parte dai colossi del packaging, del food&beverage e della distribuzione, ma non mancavano riciclatori e produttori di materie plastiche. Secondo i promotori dell’iniziativa, i firmatari rappresentano circa un quinto di tutti gli imballaggi in plastica a livello globale, tra i quali colossi del calibro di Danone, H&M, L’Oréal, Mars, PepsiCo, Coca-Cola e Unilever, produttori di packaging come Amcor, fornitori di plastiche (Borealis, Indorama) e bioplastiche (NatureWorks e Novamont), e aziende che operano nella gestione dei rifiuti come Veolia o il gruppo italiano Hera. Tra associazioni e altre istituzioni, si leggono le firme di Ceflex, China Plastics Reuse and Recycling Association, EPRO (European Plastics Recycling and Recovery Organisation), Plastics Recyclers Europe (PRE), Università di Pavia, Bocconi e Politecnico di Milano. Gli obiettivi introdotti nel «New Plastics Economy Global Commitment», che saranno rivisti ogni 18 mesi, divenendo via via più ambiziosi, si articolano nei tre pilastri “Eliminate, Innovate, Circulate“:
• L’eliminazione di tutti gli imballaggi di plastica problematici e non indispensabili, con il passaggio dal monouso a modelli di imballo riutilizzabile;
• Innovazione per assicurare che tutti i packaging in plastica possano essere riutilizzati, riciclati o compostati, in piena sicurezza, entro il 2025;
• Rendere circolari le plastiche, aumentando in modo rilevante la quantità di materiale riutilizzato o rigenerato nei nuovi prodotti in plastica.
Nell’ambito di questi tre pilastri, obiettivi più dettagliati sono stati fissati per aziende – suddivise per attività – governi ed ‘endorser’ (associazioni, istituzioni accademiche e finanziarie) ai produttori di imballaggi e prodotti imballati, distribuzione e Horeca, viene chiesto di eliminare tutti gli imballaggi di plastica problematici e non indispensabili entro il 2025, e per la stessa data attuare misure per passare dal modello monouso a quello del riuso, rendendo tutti gli imballaggi riutilizzabili, riciclabili o compostabili. Inoltre, viene chiesto di fissare obiettivi ambiziosi per il contenuto di plastiche riciclate all’interno degli imballi. Ai produttori di materie prime, si chiede di fissare target ambiziosi nel contenuto di resine rigenerate o – nel caso delle bioplastiche – di portare il contenuto di rinnovabili almeno al 75%. Raccoglitori, separatori e riciclatori di rifiuti dovrebbero, invece, impegnarsi ad aumentare i volumi e la qualità delle plastiche riciclate, fissando anche in questo caso obiettivi ambiziosi rispetto ai livelli attuali; nella gestione dei rifiuti, andrebbe inoltre ridotto il ricorso a discariche e incenerimento a favore del riciclo meccanico e compostaggio.

RISCHIO DI GREENWASHING
Quando i programmi ambientali coinvolgono un così grande numero di aziende, inevitabilmente diventano vaghi, aprendo la strada al «greenwashing» soprattutto in un momento come l’attuale, che vede le materie plastiche sul banco degli imputati. Solo il tempo mostrerà se l’impegno preso oggi porterà ad un reale cambiamento di paradigma nel design, nella produzione e nella gestione del fine vita degli imballaggi, oltre che nelle abitudini dei consumatori. Il rischio di greenwashing passa anche attraverso le bioplastiche, le plastiche biodegradabili e quelle compostabili. Infatti, c’è una grande confusione tra i consumatori, che finiscono per considerare equivalenti questi termini – quando in realtà una bioplastica non è necessariamente biodegradabile e viceversa – facendo confusione al momento dello smaltimento. Una bioplastica è un materiale prodotto a partire da materie prime vegetali. Tuttavia, oggi, la gran parte delle bioplastiche derivano da colture ad uso alimentare umano e quindi competono con la produzione di cibo, alzandone i prezzi e contribuendo alla deforestazione causata dall’agricoltura industriale. Le plastiche biodegradabili sono materiali progettati per degradarsi in determinate condizioni – spesso però non soddisfatte nell’ambiente – con il rischio di contribuire alla diffusione delle microplastiche. Le plastiche compostabili, come ad esempio quelle utilizzate per i sacchetti distribuiti nei supermercati, sono materiali pensati per dissolversi completamente negli impianti di compostaggio. Non tutti i centri di trattamento dei rifiuti organici, però, sono in grado di gestire questo materiale, e la situazione rischia di peggiorare man mano che cresce la diffusione di questi materiali. Oggi la bioeconomia (l’insieme dei settori che trattano materie prime rinnovabili di origine biologica) raggiunge in Italia 2 milioni di occupati ed un valore della produzione di 328 mld di Euro. Il peso sul totale delle attività economiche è in crescita (8,8% della produzione nel 2008 e 10,1% nel 2017). L’ Italia è al secondo posto tra i principali paesi Europei, dopo la Spagna. Cruciali per lo sviluppo della bioeconomia in un’ottica circolare sono le attività di completamento del ciclo di recupero dei materiali: l’Italia si posiziona fra i paesi Europei con la più alta percentuale di riciclo: per i rifiuti biocompatibili il 91%, rispetto a una media Europea del 77%.

COSA FARE
Le considerazioni finali sono rivolte al nostro Paese, il cui tessuto industriale, particolarmente in questo settore specifico, è composto prevalentemente dalla PMI. Circa 11.000 imprese, che fatturano oltre 30 miliardi di Euro, oltre 150.000 addetti. Di queste, 5.000 sono attive nella prima trasformazione, garantendo lavoro a 110.000 addetti per un fatturato complessivo annuo di circa 15 miliardi di Euro. Se facciamo poi riferimento al settore della fabbricazione di imballaggi in materie plastiche, nel 2016 le aziende attive erano 1.540, pari allo 0,4% delle imprese italiane manifatturiere, con 1.780 unità locali ed una forza lavoro di quasi 30 mila addetti. Il fatturato del comparto ha superato in quell’anno la soglia degli 8 miliardi di Euro, con un valore aggiunto pari ad oltre 2 miliardi di Euro, equivalente allo 0,28% di quello nazionale. Per quanto concerne la distribuzione delle aziende nel territorio nazionale, nelle regioni del Nord-ovest era attivo il 43,9% delle unità locali con una quota di valore aggiunto pari al 47,7%. In questo dinamico e competitivo scenario, il trasferimento tecnologico costituisce un tema di enorme importanza e criticità in quanto singolarmente le aziende non sono in grado di affrontarlo in modo autonomo. Le tempistiche non possono essere immediate per carenza di tecnologie alternative altrettanto valide ed efficaci. Occorre pertanto gestire la transizione in modo consapevole e sostenibile, evitando pericolose accelerazioni che avrebbero come unico risultato la perdita di valore e competitività delle nostre aziende, se non la sopravvivenza delle stesse.